Quale società per il XXI secolo? Il rapporto dell’IPSP – International Panel on Social Progress
- 25 Febbraio 2019

Quale società per il XXI secolo? Il rapporto dell’IPSP – International Panel on Social Progress

Scritto da Massimo Aprea, Gabriele Palomba

12 minuti di lettura

Reading Time: 12 minutes

Nel perdurare di una delle più grandi e complicate crisi della storia contemporanea, i cui effetti e sviluppi hanno interessato molte dimensioni delle nostre società, dall’economia alla politica passando per la vita quotidiana, faticano ad imporsi nel dibattito pubblico delle risposte credibili alle aspettative di un futuro migliore da parte di tutti. Nonostante non siano mai state così sviluppate e non abbiano mai avuto così tanti strumenti a disposizione, le scienze sociali non riescono a fare un punto della situazione sulle strategie e le idee da perseguire perché si possa tornare a parlare di “progresso sociale”. È proprio per rispondere a questa esigenza che un nutrito gruppo di esperti e studiosi si è riunito nell’International Panel on Social Progress (IPSP). Lo scopo di questo gruppo è quello di fornire agli attori socio-politici ed economici, tanto nazionali quanto internazionali, una nuova sintesi delle analisi maturate di recente nel variegato mondo delle scienze sociali. Si pone in maniera indipendente sia rispetto alle istituzioni ufficiali che alle diverse parti politiche, cercando di non presentare all’opinione pubblica proposte “a scatola chiusa”, ma di partecipare al dibattito pubblico con un approccio multidimensionale, pluralista e aperto agli stimoli esterni. Si propone quindi di creare un consenso intellettuale attorno ad una rinnovata idea di progresso sociale, senza però nascondere le controversie e i punti critici.

A quattro anni dalla sua fondazione, l’IPSP ha recentemente pubblicato il suo primo rapporto “Ripensare la società nel XXI secolo”, corredato da un “Manifesto per il progresso sociale: idee per una società migliore”. Il rapporto è stato presentato alla Facoltà di Economia della Sapienza lo scorso primo febbraio, in un convegno organizzato tra gli altri dal Forum Diseguaglianze Diversità, dal Centro di Ricerca Interuniversitario Ezio Tarantelli (CIRET), oltre che dalla stessa Università. Sono intervenuti come relatori dell’IPSP il Co-Direttore Olivier Bouin, Gianluca Grimalda (IFW Kiel, Germania), Ruben Lo Vuolo (CIEPP, Argentina), Nadia Urbinati (Columbia University, USA) e Gian Paolo Rossini (IPSP), mentre i commenti sono stati affidati ad esponenti del mondo accademico, delle istituzioni pubbliche e dell’associazionismo sociale.

Ad introdurre i lavori è stato il professor Maurizio Franzini (Sapienza, CIRET), argomentando come questo rapporto si inserisca perfettamente nel contesto sociale odierno, dominato da un’oligarchia politico-economica tendente ad autoriprodursi e da idee affermatesi nonostante siano carenti di giustificazioni e validità, tanto da un punto di vista teorico quanto da uno empirico (ad esempio, la famigerata teoria economica dello “sgocciolamento”, secondo la quale un’elevata concentrazione di risorse nelle mani dei più ricchi sarebbe benefica per l’intera società, così come l’idea che ci sia un contrasto, e non una reciprocità, fra la lotta alle disuguaglianze e la crescita economica). Ha senso quindi produrre nuove idee e integrarle fra loro, in modo tale da contrastare quelle “sbagliate” ma dominanti e al fine di indurre miglioramenti nelle società contemporanee.

Nel primo panel del convegno, il Co-Direttore Bouin ha presentato gli aspetti generali del rapporto, facendo leva sui motivi che hanno portato alla nascita dell’IPSP, sulle mancanze cui si propone di rispondere e sul suo modus operandi, cui si è fatto già riferimento in apertura. Ha poi introdotto il concetto di progresso sociale in senso lato, del quale il rapporto non dà e non vuole dare una definizione precisa, ma piuttosto una caratterizzazione ampia, imperniata soprattutto sulla multidimensionalità e multidisciplinarietà di questo concetto. I temi principali del Main Report sono diversi e fondamentali e spaziano dai trends in atto nell’ambito del progresso sociale a livello globale alle trasformazioni socio-economiche che questi stanno provocando, per arrivare al tema della governance e della politica. Qui l’accento è posto sulla necessità di ridurre la concentrazione di interessi e i poteri di lobbying, sull’empowerment della cittadinanza, sul decentramento della gestione della cosa pubblica e sulla ricerca di cooperazioni “win-win” fra attori istituzionali e non di diverso tipo. Inoltre, il rapporto affronta il tema dei valori e della cultura alla base del progresso sociale, tema che secondo il sentire dei membri dell’IPSP è spesso affrontato con sufficienza nel dibattito pubblico, ma che è in realtà di assoluto rilievo. In conclusione, Bouin ha indicato le tre principali sfide odierne per il progresso sociale: il contrasto alle disuguaglianze, la ricerca di una sostenibilità del sistema sociale e il rafforzamento della pratica democratica.

A commentare l’intervento di Bouin è stato Tito Boeri, Presidente uscente dell’INPS e anch’egli membro dell’IPSP. Fra gli aspetti apprezzabili del rapporto, a suo dire, c’è l’ampiezza con cui affronta le problematiche odierne, avendo al contempo uno sguardo globale, di lungo periodo e che tocca approfonditamente i temi critici. Come prevedibile data la carica che ricopre, ha concentrato il suo intervento sul welfare state. La tensione innovativa e intellettuale del rapporto è utile anche in questo campo, in quanto per Boeri serve ripensare lo stato sociale, in maniera tale da permettergli di continuare a esercitare il suo ruolo positivo nel fronteggiare i nuovi problemi di inclusione sociale, ormai “strutturali” nelle nostre società, cosa che al momento è impreparato a fare. In particolare, deve prepararsi ad utilizzare strumenti alternativi ai soli trasferimenti monetari, che guardino soprattutto alla formazione del cittadino, possibilmente agendo su una dimensione locale e decentrata. Altra parola chiave nel discorso di Boeri è stata “mobilità”, in primis nel senso di mobilità tra lavori diversi, elemento con cui il welfare state dovrebbe fare i conti, andando oltre la sola salvaguardia del posto di lavoro, garantendo la continuità reddituale attraverso sistemi di assicurazione salariale. Ma va intesa anche nel senso di mobilità territoriale, dato che la disuguaglianza si sviluppa anche su base territoriale, essendo le risorse concentrate nelle aree più ricche della società. È fondamentale a questo fine recuperare anche le politiche per la casa, un tempo preponderanti nell’azione dello stato sociale, mentre oggi sono finite perlopiù nel dimenticatoio. La guida dell’Inps ha poi collegato strettamente gli aspetti intergenerazionali del progresso sociale al tema delle migrazioni, ribadendo un concetto già espresso più volte. Infatti, la questione della transizione demografica va affrontata globalmente, vedendo quello dell’invecchiamento della popolazione nel Nord e quello delle migrazioni dal Sud del mondo come due aspetti di un unico processo globale. In questa dinamica, possono giocare un ruolo fondamentale i fondi pensione, che potrebbero entrare in questo processo come investitori istituzionali su scala globale. Facendo una summa dei concetti del pensiero di Boeri comunque, non si può non notare come egli intenda il ruolo del welfare state più come un “tampone” alle dinamiche generate dalle trasformazioni socio-economiche, che come un vero e proprio fattore a sua volta di trasformazione della società.

 

L’IPSP e il progresso sociale: cos’è e come ottenerlo

Il secondo panel della giornata, “Cos’è il progresso sociale e quali sono le linee di tendenza?”, ha visto succedersi gli interventi di Gianluca Grimalda (IFW Kiel) per l’IPSP, Lorenzo Sacconi (Statale di Milano, Forum Disuguaglianze Diversità) e Luca De Fraia (ActionAid Italia). Per quanto riguarda la definizione del concetto di progresso sociale, si è ribadita la necessità di rispettare il pluralismo di idee e opinioni su ciò che è “bene” per la collettività, rigettando però qualsiasi relativismo assoluto. Tale concetto poggia su alcuni valori fondamentali (fra i quali spiccano in quanto indiscutibili quelli di “libertà” e di “benessere”) e su alcuni principi fondamentali, che declinano in maniera differente tali valori, ma soprattutto le strategie per raggiungerli, anche se è stato fatto notare come questa distinzione fra “valori” e “principi” sia passibile di critica, così come arbitraria è l’individuazione dei valori stessi in una lista, che può essere allo stesso tempo incompleta e ridondante (in quanto alcuni valori potrebbero sovrapporsi ed includersi l’un l’altro). In ogni caso, una definizione minima comune a tutte le varie sfumature presentate nel rapporto è quella contenuta nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, con l’enunciazione del Principio di Uguale Dignità. Quanto alle tendenze, in generale si è riconosciuto come sicuramente si possa parlare di un effettivo progresso sociale nel corso dell’ultimo secolo, ma è altrettanto sicuro il fatto che diverse linee di tendenza positive si stiano esaurendo, se non addirittura invertendo. È il caso della distribuzione della ricchezza e dei redditi (dove non va trascurato anche il ruolo della “pre-distribuzione”, cioè della necessità di intervenire anche sulle strutture di controllo del capitalismo e di considerare le imprese come istituzioni passibili di modifiche e cambiamenti, al pari di quelle pubbliche) così come dell’impatto dei cambiamenti climatici.

La terza sessione, “Politiche di benessere per il 21° secolo” si è incentrata sull’ottavo capitolo del Rapporto, illustrato da Ruben Lo Vuolo (CIEPP, Argentina) e commentato da Elena Granaglia (Roma Tre, Forum Disuguaglianze Diversità), Giuseppe De Marzo (Rete dei Numeri Pari, Libera) e Michele Raitano (Sapienza). Gli assi di intervento individuati nel rapporto sono diversi: il contrasto alla concentrazione di reddito e ricchezza, la promozione del benessere non solo in senso materiale ma anche in senso personale e soggettivo, l’assenza di una “convergenza di fondo” del sistema capitalistico, che presuppone il fare i conti con l’impossibilità di trovare una forma unica con cui esso si organizza o si rapporta alla democrazia, motivo per cui è altrettanto impossibile individuare una “ricetta” unica, valida sempre e ovunque. In questo quadro, il rapporto suggerisce che il potere statuale, pur fortemente limitato dalla globalizzazione, ricopre ancora un ruolo centrale e determinante, con di fronte a sé la sfide importantissime di combinare l’istituzione-mercato con un nuovo “empowerment sociale”, affrontando il perseguimento dell’uguaglianza come una vera e propria “strategia di sviluppo” e non solo come valore guida. Tale strategia si basa su tre pilastri, il primo dei quali è il legame a doppio filo tra compressione della dispersione salariale e incentivo all’innovazione, senza la quale non si potrebbe invertire la tendenza per cui le imprese più produttive sono anche quelle che domandano meno forza lavoro, generando ulteriori fratture nel mondo del lavoro. Il secondo è quello dell’espansione delle politiche universali, mentre il terzo riguarda le politiche di entitlement, in particolare reddito di base, imposta sull’eredità ed eredità “di base” (così come proposta da Anthony Atkinson) ed infine democratizzazione delle organizzazioni economiche. Durante questo panel si è avuta dunque l’occasione per entrare più marcatamente nell’attualità, con la discussione del “reddito di cittadinanza” recentemente approvato dal governo italiano. I relatori sono stati unanimi nell’osservare che, a dispetto del nome, tale misura ha poco a che vedere con le varie forme di reddito di base, configurandosi piuttosto come una forma di workfare. Per essere pienamente efficace invece, dovrebbe anzitutto essere complementare alle altre misure di welfare, non un sostituto, ma soprattutto dovrebbe essere per quanto possibile universale e incondizionato, distaccandosi dalle politiche attive del lavoro. Andrebbe poi declinato secondo le caratteristiche del sistema economico del Paese in cui viene istituito, sempre nell’ottica del riconoscimento delle “specificità nazionali” del capitalismo, per cui a diverse caratteristiche specifiche dovrebbero corrispondere diversi redditi di base. Si è anche sottolineato come anche la politica monetaria ha un suo ruolo nella lotta alle disuguaglianze, specialmente quelle su scala mondiale. Infatti, è bene ricordare come esistano solo poche monete veramente “internazionali” (il Dollaro, l’Euro, più recentemente il Renminbi cinese), mentre la gran parte delle altre valute è ad esse strettamente legate. Vanno quindi considerati anche gli aspetti distributivi della denominazione in Dollari o in Euro dei debiti pubblici dei Paesi in via di sviluppo.

 

Immigrazione e populismi in Europa

La prima delle due sessioni pomeridiane si è occupata di immigrazione in Europa, tema centrale nel dibattito politico nazionale ed internazionale oltre che variamente connesso a molte dimensioni del progresso sociale descritte nel rapporto. Dal lato dell’emigrante la questione è piuttosto ovvia: che sia per sfuggire alla guerra o al bisogno, si lascia il proprio paese di origine nella speranza di migliorare la propria condizione esistenziale o quella dei propri cari, in altre parole per perseguire quell’empowerment di cui si è detto nella prima parte di questo articolo. Dal lato del paese ospitante, tuttavia, la questione può essere più complessa. L’immigrazione, infatti, soprattutto se non accompagnata da adeguate politiche di integrazione, può essere percepita come una minaccia alla sicurezza o all’identità culturale. Inutile dirlo, il ruolo della politica nel determinare o alimentare tali percezioni è cruciale.

Questi ed altri temi sono stati affrontati nella sessione da Gianluca Grimalda, di nuovo in rappresentanza dell’IPSP, Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone e collaboratore della cattedra di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre e Manuela De Marco, membro dell’ufficio politiche migratorie della Caritas italiana e curatrice del Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes.

L’intervento iniziale ha posto le basi “scientifiche” della discussione, fornendo una serie di dati e inquadrando il fenomeno dell’immigrazione nell’ambito dei trends demografici internazionali. A tal proposito, Grimalda ha individuato tre fasi demografiche che hanno contraddistinto il continente europeo a partire dagli anni ’50 del secolo scorso. Una di boom (tra il 1950 e il 1980) con un incremento della popolazione di circa il 26% e un’immigrazione netta complessiva vicino allo zero, una di rallentamento (1980-2010) con un incremento della popolazione limitato al 6% e un’immigrazione netta intorno ai 30 milioni di persone e una fase attuale, iniziata intorno al 2010 e i cui tratti non sono definibili con certezza a meno di un considerevole invecchiamento demografico: il Vecchio Continente diventerà vecchio a tutti gli effetti, anche stimando un flusso annuo di immigrazione netta di un milione di persone, nel medio periodo la percentuale di ultra-settantenni si assesterà intorno al 62%. Un dato questo, senz’altro rilevante per la politica migratoria, ma su cui è necessario improntare un’ampia riflessione che consenta di adattare alle nuove esigenze della popolazione il sistema sanitario, quello pensionistico, la divisione del lavoro, e perché no, la politica industriale. Altro aspetto cruciale di questa nuova fase demografica che ci riguarda da vicino è quello che vede il Sud Europa, nonostante i cospicui flussi migratori in entrata, come zona di emigrazione netta nel periodo 2010-2015. Tra le altre cose, questo dato preoccupante ci dovrebbe far riflettere molto seriamente sulle politiche economiche e sociali messe in atto in questa parte del continente dopo lo scoppio della grande crisi nel 2008.

L’immigrazione e le politiche messe in atto per la sua gestione, insomma, avranno senz’altro un impatto significativo sull’Europa del futuro. Ma il segno di tali politiche dipenderà in modo cruciale dalla percezione del fenomeno migratorio da parte della popolazione europea. Gli interventi di Patrizio Gonnella e di Manuela De Marco, si sono dunque concentrati su un aspetto cruciale a tal proposito: la relazione tra immigrazione e criminalità.

Secondo Patrizio Gonnella, la diffusa percezione di insicurezza è dovuta in primo luogo al graduale smantellamento del sistema di sicurezza sociale iniziato nei primi anni ’80 e manifestatosi nell’abbandono delle politiche abitative, nella flessibilizzazione dei contratti del lavoro, nell’incremento dei costi della sanità. L’immigrazione non ne è una causa primaria. Il fenomeno migratorio, tuttavia, viene strumentalizzato politicamente, spesso senza tenere conto dei dati a disposizione, da forze politiche che fanno appello all’ampia platea di persone che, rese fragili dalle politiche sanguinose degli ultimi anni, cercano da un lato un capro espiatorio e dall’altro un gruppo sociale al quale identificarsi. Per chi vuole difendere i diritti degli immigrati in quanto persone particolarmente esposte e vulnerabili, dunque, si pone con grande forza il tema della capacità di incidere nella narrazione politica. Secondo Gonnella, l’argomento identitario non può essere sconfitto da considerazioni di stampo accademico sulla potenziale “utilità” degli immigrati (che sia per la sostenibilità del sistema pensionistico o per la copertura di settori produttivi che gli italiani non vogliono più ricoprire) ma da considerazioni di tipo ideale, dalla capacità di proporre una società solidale e umana. Come si può facilmente comprendere, in questa ottica la proposta di politiche efficaci e ragionevoli è fondamentale, ed è in questa direzione che si è sviluppato il resto della discussione.

Nel contesto di un sistema di sicurezza sociale ridotto al minimo e di scarse politiche di integrazione (ulteriormente ridimensionate dal recente decreto sicurezza) la popolazione straniera rappresenta alcuni problemi di ordine pubblico. Il dato citato da Gonnella e, in seguito, anche da Manuela De Marco, è quello della sovra-rappresentazione della popolazione straniera tra i detenuti. Se gli immigrati, infatti, sono circa l’8% della popolazione residente (poco più di 5 milioni di persone) sono poco più del 34% dei detenuti. Un dato a prima vista molto significativo. Il dato, tuttavia, rimane incompleto se non si tiene conto di una serie di altri fattori. In primo luogo, come sottolineato da entrambi i relatori, la percentuale di detenuti stranieri è rimasta costante negli ultimi 10 anni a fronte di un significativo aumento della popolazione straniera (circa +1,4 milioni di persone) indicando che meno stranieri tendono a delinquere. Altra questione fondamentale è quella del gruppo etnico di appartenenza. I rumeni, ad esempio, stanno calando tra la popolazione detenuta dal momento che stanno ormai nascendo le seconde e terze generazioni. Questo da un lato favorisce l’integrazione culturale e dall’altro aumenta il tasso di fiducia dei cittadini italiani verso quella specifica etnia. Infine, un dato di grande importanza è la presenza delle donne all’interno dei gruppi etnici di immigrati. Come è facile immaginare, la presenza delle donne riduce significativamente il tasso di criminalità. A questo proposito sono di fondamentale importanza le politiche di ricongiungimento familiare. Entrambi i relatori, insomma, insistono sull’integrazione come unico vero rimedio ai problemi di carattere sociale posti dal fenomeno migratorio.

Tratto distintivo dell’intervento di Manuela De Marco è stata la denuncia di quattro aspetti della politica migratoria italiana: la mancanza di vie legali d’accesso in grado di ridurre i viaggi della speranza e di poter distinguere veramente i rifugiati da chi cerca una migliore fortuna economica nel nostro paese, la tolleranza verso situazioni di gravissimo sfruttamento di lavoratori immigrati (vengono alla mente i campi di arance di Rosarno), la carenza di politiche di inserimento lavorativo degli immigrati per non dover regolarizzare seriamente ampi settori del mercato del lavoro italiano e la politica di esternalizzazione delle frontiere, che, anche a causa del totale disinteresse dell’Unione Europea, si è dimostrata del tutto inefficace. Che fare dunque? I due relatori di questa interessante sessione concordano sul fatto che debba essere promossa l’integrazione nell’ambito di una visione della società e della nazione come luogo di solidarietà e di aiuto verso i più deboli. Peraltro, la messa in atto di politiche per l’integrazione, oltre al valore in sé di aiutare una categoria di persone tra le più vulnerabili, potrebbe avere un significativo impatto positivo sul mercato del lavoro italiano.

L’ultima sessione della conferenza si è occupata di un altro dei grandi temi di questo tempo: il populismo e il futuro della democrazia, un tema talmente ampio e complesso, che in queste note è possibile solamente commentare brevemente alcuni degli spunti più interessanti emersi nella discussione. La relazione introduttiva è stata quella di Nadia Urbinati, docente di teoria politica presso la Columbia University e rappresentante dell’IPSP. Un primo passo interessante del suo intervento è stato quello di scegliere di non dare una definizione precisa di populismo, che si configura come un “animale strano” che, come messo in evidenza molto bene da Luca Scuccimarra, professore di storia delle dottrine politiche presso l’Università la Sapienza e secondo relatore della sessione, si innesta su una serie di crisi profonde nell’ambito delle democrazie occidentali: la crisi di sovranità, causata, tre le altre cose, dal processo di globalizzazione, la crisi di complessità e la crisi di discorsività, ovvero la sostanziale diversità di linguaggio e incomprensione tra l’establishment politico tradizionale e la popolazione.

Altro passaggio cruciale dell’intervento di Nadia Urbinati è quello che tratteggia il legame indissolubile tra populismo e democrazia. Il populismo, infatti, opera una trasformazione della rappresentanza democratica. Si passa dall’elezione di una figura rappresentativa di una parte (partito) ad un leader che si fa interprete direttamente del popolo, che si fa popolo. Il momento dell’elezione si trasforma così in un momento di investitura quasi fideistica e di legittimazione di un programma di governo necessariamente di rottura (almeno in alcuni aspetti) rispetto al passato. In questo discorso si inserisce l’interessante intervento di Giovanni Moro, ex segretario dell’organizzazione Cittadinanzattiva, che, sottolineando la crisi del modello democratico fondato sulla partecipazione dal basso, insiste sulla necessità di comprendere le ragioni dei populismi e, in particolare, il sentimento contrario ad una élite sociale che ha saputo tutelare i propri interessi a scapito di quelli di tutti gli altri.

La grande domanda che rimane aperta, dunque, è quella se sia necessario preoccuparsi del populismo, ossia di una forma si rappresentanza politica che, pur non intaccando la struttura formale della democrazia, ne cambia l’interpretazione.

Le conclusioni, affidate a Gian Paolo Rossini, professore di Politica economica all’Università di Bologna e membro dell’IPSP e a Olivier Bouin, hanno posto l’accento su due questioni fondamentali: in primo luogo, per promuovere il progresso sociale è necessario adottare una prospettiva interdisciplinare che consenta di cogliere la profonda interconnessione delle sue varie dimensioni. In secondo luogo, che non è possibile ignorare il carattere globale delle sfide (in primis quella ambientale) che attendono l’umanità in questo periodo così complesso e, al contempo, gravido di possibilità.

Scritto da
Massimo Aprea

Ha conseguito nel 2018 la laurea in Economia politica presso l'Università La Sapienza di Roma. I suoi interessi riguardano le disuguaglianze e le politiche in grado di fronteggiarle efficacemente. Attualmente è dottorando in Economia politica presso l'università La Sapienza di Roma.

Scritto da
Gabriele Palomba

Dottorando alla Scuola di Dottorato in Economia dell’Università La Sapienza di Roma, laureato in Economia politica presso la stessa università. Studia le disuguaglianze e la distribuzione del reddito. Ha conseguito il diploma triennale della Scuola Superiore di Studi Avanzati Sapienza (SSAS). Membro della rete italiana di Rethinking Economics.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici